How do I know if I
love you? La domanda è semplice e straordinariamente
affascinante.
Non so come so certe
cose. Esisto; mi trovo cioè gettato al di sotto di un orizzonte in
cui conosco le cose “innanzi tutto e per lo più”.
Questa conoscenza è
tutto ciò di cui abbiamo bisogno e, allo stesso tempo, è
drammaticamente insufficiente (angosciante).
In realtà non è importante
quanto o cosa sappiamo ma la vertiginosa relazione tra ciò che
sappiamo e il piano di immanenza della nostra conoscenza. Il piano di
immanenza è sempre ineffabile in una certa misura, sempre differente
e deferito rispetto a ciò che sappiamo. La conoscenza, a sua volta,
non è mai del tutto contenuta all'interno del piano ma mostra una
tendenza impertinente a oltrepassare i limiti del piano in cui si
iscrive.
When all these things
come and go?
You can't stand them
toghether in some neat little row
Il clip poi mette di
fronte a un'altra domanda, inquietante: “Come sa l'uomo del video
che deve fare ciò che fa alla fine del video?”. Di fronte a questa
domanda, “timore e tremore”.
Sappiamo che amiamo e,
senza sapere perché, ci prendiamo cura delle cose che amiamo.
Sappiamo anche però di dover distruggere le cose che amiamo, senza
un vero perché, ma sapendo che è così che deve essere.
"Davvero?!"
Gridò il Silenzio incredulo prima di morire. Nacque subito un altro
Silenzio che aveva una gran voglia di gridare ma non poteva farlo per
non morire.
L'aporia del silenzio e la macchina da guerra sonora: l'una di fronte all'altra, l'una intrecciata all'altra. C'è della decostruzione. C'è della speranza.
We created a deconstructive musical piece called RETROGRADE, conceptualized and executed by Death Grips and coded by Jacob Ciocci (Extreme Animals). It’s an infinite GIF
sampler. There are 109 loops that you can start and stop at will.
Depending on the number of loops you trigger and the way you time them,
an infinite number of visual/audio combinations are possible.
It’s inspired by Mercury
being in retrograde right now (until April 4, 2012). The piece is an
expression of the infinite/fractal nature of every moment in time. When
creating music, we are sticking/unsticking ourselves to endless time
snakes—the idea that the smallest/tiniest of moments contains everything
in the universe—Progress/becoming UNSTUCK.
The piece itself is a musical instrument. Our real performances
are disassembled, mangled, and thrown back together in a renegade way.
We recommend the “PLAYALL”
button. This is exactly how we create our art. It’s dirty, chaotic, and
constantly on the brink of catastrophic failure. We encourage others to
deconstruct our ideas and this piece in similar ways. We are excited
about people creating their own content out of this device. It’s not
about the machine itself but the process of exploration. (http://thecreatorsproject.com/blog/noise-rap-trio-death-grips-debuts-a-music-video-in-109-gif-pieces)
Al posto di questo post doveva esserci la recensione del concerto di Apparat. Invece, proprio Apparat ha prodotto questo post.
Per tutta la giornata di ieri e per tutto il concerto non potuto resistere agli echi deleuziani del nome d'arte di Sasha Ring è ho continuato a produrre associazioni su questa singolare coincidenza. Il risultato è questo post in cui cercherò di formulare un'ipotesi strategica che serva a affrontare l'empasse personale e esistenziale descritta nel post precedente.
Un apparato di cattura esteso, capillare e ipertrofico come quello che mi sono costruito in questi ultimi anni può essere molto potente e indubbiamente garantisce sicurezza perché si rivela un efficace strumento di dominio sul deserto. Può succedere però, come ho spiegato nel post precedente, che l'apparato di cattura entri in corto circuito: il mio apparato di cattura è cresciuto a tal punto da mettere fuori uso la macchina da guerra, sia da un punto di vista fisiologico (fuor di metafora il sovrallenamento ha provocato i danni al corpo con i quali sto facendo i conti), sia da un punto di vista esistenziale. E' proprio su quest'ultimo punto che si concentra la riflessione di questo post scaturita del tutto incidentalmente dalla presenza di Apparat a Bologna.
Nel mio caso infatti l'apparato di cattura ha striato in lungo e in largo il deserto tanto che ora che provo a percorrerlo, cercando nuove vie per la macchina da guerra nomade, mi ritrovo sempre sulle stesse strade e è proprio questo che continua a causare sofferenza. Devo invece spostarmi abbandonando una volta per tutte un apparato di cattura obeso e ormai obsoleto. Secondo questa prospettiva, non è la macchina da guerra a essere sconfitta (questo fin ora pensavo nei momenti di sconforto più profondo...a ben vedere la macchina da guerra non conosce sconfitta perché non conosce battaglie) piuttosto è l'apparato di cattura che va smantellato e rifondato. In altre parole è necessario per me articolare una nuova dialettica tra spazio liscio e spazio striato affinché la macchina da guerra possa riprendere il suo nomadismo.
Forse rileggendo questo post a distanza di tempo non sarò neanche più in grado di decifrare questa metafora, l'importante però è che l'ipotesi formulata sia chiara per me ora così da verificarla e, se si rivelerà un'ipotesi veramente produttiva, allora continuerà a avere senso – una molteplicità di sensi – anche a distanza di tempo. (dopo il salto continua il delirio...)
chi vuole
scrivere non vuole scrivere questa opera, questo romanzo, vuole
scrivere in generale, che è l’esperienza la più insensata e
strana, però credo anche la più profonda. [...] nel voler scrivere
in realtà c’è una specie di desiderio e di esperienza della
possibilità. Voler scrivere significa volersi rendere la vita
possibile.
Aporia: tracciare
la cancellazione di una traccia.
Questo blog è
nato come esperienza di possibilità, la possibilità di vivere
nonostante io sia rimasto improvvisamente a corto di senso o, se
volete, la possibilità di un senso a partire dalla
mancanza di senso.
Sono passati
ormai 6 mesi da quella stramaledetta domenica in cui una scossa
insopportabile dietro la gamba sinistra mi ha lasciato succube di un
cane rabbioso sempre attaccato letteralmente al culo. Prima che la
sciatalgia mi colpisse correvo 3 / 4 volte a settimana per un totale
di 35/40 km, andavo 3 volte in piscina per un totale di circa
7000/8000 metri, in bici 3 volte per 150/200 km; il
triathlon era il senso, quasi esclusivo, della mia esistenza. Di
colpo tutto ciò si è dovuto fermare; da un momento all'altro tutto
il senso che avevo cercato faticosamente di costruire è venuto a
mancare. Sono passati 6 mesi e ancora non sono tornato, né a
correre, né a salire in bici; l'unica attività – poca e
intermittente – che la mia schiena mi concede è la piscina e un
po' di attrezzi in palestra. Già perché, dopo un paio di mesi,
proprio quando il fuoco corrosivo della sciatalgia alla gamba
sinistra sembrava essersi spento (non senza avermi lasciato un
deficit di forza nell'estensione delle dita del piede e piccole
fiammate di parestesie allo stinco che continuano a tornare), la mia
schiena è entrata in corto circuito e sembra non volersi rimettere a
posto: gli episodi di lombosciatalgia continuano fino a oggi.
Non sto a dire
tutte le visite, gli esami, le diagnosi, le prognosi, le terapie.
Quando ti svegli e senti dieci spine infilate tra la schiena e il
culo e sai che rimarranno piante lì
per tutta
la tua giornata lavorativa e per tutto il resto della tua giornata,
che ti faranno rinunciare a quell'ora di palestra in cui speravi
almeno di fare quei 10 esercizi stupidi a carico 0 e che il
giorno dopo starai ancora più male, è difficile trovare un senso -
una molteplicità di sensi - per quanto mi stia sforzando. Il dolore è ciò che muove la ricerca di senso, ciò che anima il mio desiderio - scrivere, ma è anche la causa per cui non scrivo più: la mia condizione mi impedisce di trovare un senso oltre al senso. Non trovo più senso nel cercare
un senso nella musica, nei commenti a ciò che succede nel mondo, nel
raccontare come passo i miei fine settimana. In giro per la rete è
pieno di gente che blogga delle stesse cose e anche molto meglio di
me. Il mio senso era un altro, ora non mi è dato di viverlo e, più
passa il tempo, più si allontana la possibilità di tornare a
viverlo. Al suo posto il dolore fisico e l'immobilità che ne deriva.
Per questo non scrivo più: perché sto cercando un senso nel dolore,
che press'a poco è l'unica cosa che mi è rimasta vera, viva,
profonda. Ciò significa abbandonare tutte le speranze di guarire o
di stare meglio. Non vuol dire che non provo di tutto per star meglio
ma che devo immergermi completamente nella rassegnazione come il
cavaliere di Kierkegaard. L'unica via per vedere la luce è scavare
più a fondo nell'abisso. Ciò richiede una disciplina e una forza
oltre ogni limite – sicuramente oltre le mie capacità. Ogni
tanto forse, come ho appena fatto, tornerò a scrivere, non più per
render-mi la vita possibile, ma per scavare più a fondo
nell'impossibilità di vivere.
In questo tempo di povertà puoi goderti la rivolta da infinite cyberangolazioni: i tweet, i canali su Flickr, le mappe geopinnate che si aggiornano in tempo reale, i serratissimi comunicati di Cameron, le analisi socio-psico-post-marxiste-pedagogico-e-allarmistico-sociali più disparate (dal guazzabuglio mi sento di salvare almeno un articolo). La mia impressione però è che gli strumenti culturali con cui si guarda ai fatti di questi giorni siano drammaticamente inadatti e inattuali. Allora mi è venuto in mente un uomo che nel secolo passato ha provato a rinnovare le nostre cassette degli attrezzi; le considerazioni che seguono sono fortemente influenzate dalle sue idee.
Il biopotere, in un unico gesto, cancella la vita (zoé) dell’uomo animale politico per garantire la vita (bios) della specie umana. Il biopotere non ha bisogno di ghetti. Il biopotere non ha più neanche bisogno, non come 150 anni fa almeno, della famiglia come perno sociale e istituzione di controllo. Il biopotere ha svuotato dall'interno il conflitto politico e i meccanismi di rappresentanza. Il biopotere è impalpabile e fluido, solo così può garantire la produttiva sopravvivenza di tutti e la sua stessa sopravvivenza. Di conseguenza la rivolta ai tempi del biopotere esplode a macchia di leopardo un po' ovunque, in luoghi fino a qualche anno fa considerati modelli positivi di convivenza multietnica. La rivolta ai tempi del biopotere non è fatta da gruppi razziali o sociali ben identificabili: dai 12 anni in su tutti giocano al tutti contro tutti. Nella rivolta ai tempi del biopotere lo scontro diretto con l'autorità non è indispensabile, almeno fino a quando il saccheggio può protrarsi indisturbato. La rivolta ai tempi del biopotere non rivolta niente: se sei abbastanza (s)pregiudicato puoi ottenere molto rapidamente e con mezzi violenti beni di consumo che normalmente non puoi permetterti o che potresti avere solo faticando come un somaro per mesi. Nel frattempo i tuoi vicini minimamente dotati di buon senso hanno tweetato un gruppo di iniziativa per ripulire il quartiere mentre i tuoi vicini Sikh dotati di sciabole affilatissime hanno preso al volo l'occasione per sfoderare i loro cimeli e farsi fotografare davanti al tempio di quartiere in pose decisamente poco amichevoli.
In conclusione, il biopotere esce dalla rivolta senza un graffio, al più c’è stato un cortocircuito: la rivolta del bios contro l’ambiente plasmato dal biopotere in cui il bios stesso è immerso. La zoé invece è ancora lontana dall’essere liberata; forse in futuro, in modo tangenziale, a partire dalla breccia aperta dalla biorivolta, l’animale politico potrà rompere la superficie sotto alla quale è stato rimosso ma sono pessimista in proposito. Alla luce della mia interpretazione l'unica previsione che mi sento di fare è che le biorivolte saranno sempre più diffuse e frequenti nei prossimi anni quindi prepariamoci a esse con gli strumenti giusti: in una mano avremo tutti un blackberry, nell'altra, a seconda delle preferenze, una molotov, uno spazzolone, o una scimitarra da Sandokan: get ready.
Dopo il salto una selezione musicale appropriata al tema.
E' ora di portare il mio itinerario di pensieri sull'amore almeno a un approdo provvisorio. Nel precedente post finivo col chiedermi se era possibile pensare l'amore oltre l'amore. La risposta è sì e no allo stesso tempo. Il soggetto infatti parassita l'abisso di energia della grande molteplicità per sopravvivere però è vero anche che non è possibile attingere a questo pozzo senza fondo se non attraverso i modi della maschera: come potrei infatti dirti e dirmi il mio amore al di fuori del linguaggio dell'amore?
Non resta allora che immergersi nella maschera fino al logorio e alla frantumazione della stessa, appropriarsene impropriamente per farne un (ab)uso antiutilitaristico e afinalistico e ricreare ogni volta l'amore come nuovo. Non vedo altra scelta per liberare la grande molteplicità: sbrodolarsi di romanticismo, annegare nei momenti di solitudine quando, seduto a terra, vedi l'amore riflesso in una pozza d'acqua sporca accanto al tuo vomito, vivere di volta in volta i modi dell'amore che senti affiorare da sotto la maschera. Allora forse si apriranno le crepe sulla superficie lucida di convenzioni accettate passivamente troppo a lungo e le contraddizioni di quell'amore che fa male all'amore resteranno nude, spogliate del loro senso.
Creare - questa è la grande redenzione dalla sofferenza, e il divenir lieve della vita. Ma perché vi sia colui che crea è necessaria molta sofferenza e molta trasformazione. [...] Davvero attraverso cento anime io ho camminato la mia via, e attraverso cento culle e dolori del parto. Molte volte ho già preso congedo: io conosco gli ultimi istanti che spezzano il cuore. Ma così vuole la mia volontà creatrice, il mio destino. (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra)
Perchè l'amore? Perchè torno a pensare al tema più banale, più trito e svenduto da circa 3000 anni a questa parte?
Si è detto tutto ormai, anzi a pensarci bene si dicono sempre le stesse cose: "Meglio amare o essere amati?", "L'amore fisico o l'affinità spirituale?", "Amo chi o amo cosa?".
Ovvio che torno a pensarci - e ora mi metto anche a scriverci - perché, in questo momento, amo qualcuno e quando dico “amo”, al di là delle circostanze, intendo: "provo quel generale, inspiegabile e incontrollabile stato di turbamento psicofisico e irresistibile attrazione nei confronti di una persona". Credo di aver reso l'idea.
Rimane comunque il fatto che la metafisica dell'amore è una storia chiusa, non si scappa, non c'è più nulla da dire a parte continuare a dire, continuare a struggersi in quella valle di lacrime dall'indiscutibile potere catartico che nell'epoca del dominio della tecnica chiamiamo romanticismo. E allora chi meglio di Bon Iver?...e allora facciamoci del male (pure in verisone karaoke), naturalmente dedicata al mio Skinny Love:
dopo il salto: le sconvolgenti quanto sconclusionate e provvisorie conclusioni del mio ragionamento