lunedì 26 settembre 2011

Retrocyberpunk


Oltre a Neon Indian con il video di Polish Girl per la regia di Tim Nackashi, altri musicartisti di recente hanno scelto il linguaggio del cyberpunk per i loro clip; ecco dunque la mia mini-rassegna e la mia mini-riflessione.


Song of Los di Apparat mi ha emozionato molto, fin dal primo ascolto, ancor prima di aver visto il video dal gusto agrodolce di Saman Keshavarz. La canzone risalta tra gli altri pezzi di Devil's Walk; un album che non ti aspetti, molto cantanto, molto diverso (inferiore?) rispetto a Walls ma che ha i suoi momenti (vedi anche Candil de la Calle e Ash/Black Veil) nonostante l'amalgama poco convincente. A tratti ricorda i Coldplay e, no, non è affatto un pregio per i miei standard! D'altra parte un artista che prova nuove strade, anche se a volte troppo pop-scivolose, per me merita sempre attenzione quindi: respect per Apparat anche soltanto per aver cambiato pelle.


Non poteva scegliere una citazione cinematografica più adatta alla sua musica  e al suo nome d'arte, entrambi molto anni ottanta, Seth Haley che con il video di Brokendate (regia di Will Joines) si rifà a Blade Runner. Con il progetto Com Truise del resto Haley ha espressamente fatto della rievocazione retromaniacale delle sonorità anni ottanta la sua cifra artistica; un Galactic Melt dissonante e già da sempre incompleto di epoche e stili musicali diversi:
Musicanti come quelli sopra citati, nonché i registr dei rispettivi video, evidentemente trovano nelle rievocazioni retromaniacali del cyberpunk anni ottanta il corrispettivo visivo di uno stile musicale che, altrettanto retromaniacalmente, strizza l'occhio ai suoni synth, al pop o alla New Wave degli stessi anni. Si nota un'aporia in tutto questo; una reciproca penetrazione di epoche e prospettive sul futuro: trenta anni fa certa fantascienza e certe sonorità servivano per immaginare il futuro, ora che il futuro è presente esso trova nello sguardo del passato sul futuro una forma per esprimersi. Ognuno trarrà le proprie conseguenze. Non abbiamo più nulla da inventare? O forse proprio nell'impossibilità di immaginare qualcosa di nuovo e nella pulsione nostalgica a riscrivere, l'epoché in cui viviamo trova il suo senso: un perpetuo riciclo di sensi da rottamare?
Si continui dunque felicemente a riassemblare; il futuro sembrerà un gigantesco Frankenstein fatto di membra del passato. Mica tanto male in fondo.

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