domenica 6 novembre 2011

Ipotesi per un'applicazione esistenziale del concetto di apparato di cattura


Al posto di questo post doveva esserci la recensione del concerto di Apparat. Invece, proprio Apparat ha prodotto questo post.
Per tutta la giornata di ieri e per tutto il concerto non potuto resistere agli echi deleuziani del nome d'arte di Sasha Ring è ho continuato a produrre associazioni su questa singolare coincidenza. Il risultato è questo post in cui cercherò di formulare un'ipotesi strategica che serva a affrontare l'empasse personale e esistenziale descritta nel post precedente.
Un apparato di cattura esteso, capillare e ipertrofico come quello che mi sono costruito in questi ultimi anni può essere molto potente e indubbiamente garantisce sicurezza perché si rivela un efficace strumento di dominio sul deserto. Può succedere però, come ho spiegato nel post precedente, che l'apparato di cattura entri in corto circuito: il mio apparato di cattura è cresciuto a tal punto da mettere fuori uso la macchina da guerra, sia da un punto di vista fisiologico (fuor di metafora il sovrallenamento ha provocato i danni al corpo con i quali sto facendo i conti), sia da un punto di vista esistenziale. E' proprio su quest'ultimo punto che si concentra la riflessione di questo post scaturita del tutto incidentalmente dalla presenza di Apparat a Bologna.
Nel mio caso infatti l'apparato di cattura ha striato in lungo e in largo il deserto tanto che ora che provo a percorrerlo, cercando nuove vie per la macchina da guerra nomade, mi ritrovo sempre sulle stesse strade e è proprio questo che continua a causare sofferenza. Devo invece spostarmi abbandonando una volta per tutte un apparato di cattura obeso e ormai obsoleto. Secondo questa prospettiva, non è la macchina da guerra a essere sconfitta (questo fin ora pensavo  nei momenti di sconforto più profondo...a ben vedere la macchina da guerra non conosce sconfitta perché non conosce battaglie) piuttosto è l'apparato di cattura che va smantellato e rifondato. In altre parole è necessario per me articolare una nuova dialettica tra spazio liscio e spazio striato affinché la macchina da guerra possa riprendere il suo nomadismo.
Forse rileggendo questo post a distanza di tempo non sarò neanche più in grado di decifrare questa metafora, l'importante però è che l'ipotesi formulata sia chiara per me ora così da verificarla e, se si rivelerà un'ipotesi veramente produttiva, allora continuerà a avere senso – una molteplicità di sensi – anche a distanza di tempo.
(dopo il salto continua il delirio...)
 
Tra le associazioni random del weekend è rimbalzato anche il video di Holocene dall'ultimo album,  Bon Iver, di Bon Iver (sì, uno dei migliori dell'anno care serpi di Pitchfork...una volta su mille possiamo essere d'accordo...) che sono tornato a riascoltare ultimamente. Ora, la canzone apparentemente non c'entra nulla con quanto detto sopra ma è domenica, la canzone è poetica e calma e le immagini del video lo sono altrettanto quindi mi sembra adatto alla circostanza poi forse non è neanche vero che che non c'entra nulla: il bambino del video è capace infatti di percorre il deserto come un'autentica macchina da guerra nomade, sulla sua Islanda non c'è traccia di apparato di cattura...oh, beata innocenza, perduta...

…and at once I knew I was not magnificent...

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